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DAL LAVORO LE POSSIBILITA'
DI APPROVVIGIONAMENTO
di Vitaliano Modena
In molti casi, ai profughi derivò una sufficiente o addirittura una buona capacità d'acquisto di prodotti alimentari e dell'indispensabile per il vivere quotidiano dalle attività lavorative.
Le più gradite di esse furono offerte dalle famiglie del luogo che richiedettero ragazze e ragazzi a servizio.
Le più vantaggiose e numerose, invece, vennero dai contadini.
Ma anche le fabbriche ebbero bisogno di manodopera per la produzione di ordigni, macchine belli che e indumenti per i militari, e le ditte che estraevano i minerali.
I compensi per prestazioni d'opera e la facilità di disporre di prodotti agricoli per chi lavorava la terra determinarono per molti una situazione decisamente favorevole, libera da preoccupazioni economiche, migliore perfino di quella che era stata vissuta in patria.
Durante il primo anno patimmo lo fame. Andammo più volte a rubare il pastone che una contadina, abitante lungo lo riva del fiume, portava alle oche. Poi, verso la fine del '16, il papà venne assunto presso la fabbrica della birra e con il suo salario potemmo acquistare il necessario per vivere, e lo nostra situazione migliorò notevolmente.
Noi non incontrammo mai difficoltà per procurarci il cibo, anzi, meglio di così non potevamo capitare. Trovammo lavoro presso un conte proprietario di un'immensa estensione di terra. Quelle campagne fertili sembravano, a un certo punto, un mare giallo e compatto di grano che la pioggia e il vento non riuscivano ad allettare. Le patate vi erano prodotte in quantità enormi. Quando venivano raccolte, i depositi potevano contenerne solo una parte. Il rimanente veniva scaricato in lunghissime fosse scavate in campagna; qui
erano ricoperte di paglia, poi di terra, quindi di muschio (usato, in un secondo tempo, come lettiera per il bestiame) e infine di letame. Avevamo doppia tessera: una come profughi e un'altra come lavoratori. Tornando dal lavoro, si portava a casa ora una cesta di patate, ora qualche tasca di frumento.
Anche la mia famiglia era alle dipendenze del conte. Oltre alle macchine per lavorare la terra, che per noi erano una novità, occorrevano molte braccia, e molte persone vi erano occupate. La mamma e la zia lavoravano l'orto e il giardino, noi bambini le aiutavamo. Col denaro acquistavamo quello di cui avevamo bisogno; inoltre, dalla fattoria portavamo a casa prodotti che là c'erano in abbondanza.
Quanta miseria in un primo tempo! Più tardi, mio padre e i miei fratelli trovarono lavoro presso una segheria, a Milevsko. Eravamo gli unici italiani; il nostro padrone era ebreo, uno dei tanti del posto, persona molto comprensiva e generosa. Ogni sabato era puntuale con la paga. Un giorno si offerse di affidarci anche un campo da coltivare: ci fece preparare prima il terreno, poi ci regalò anche le patate da seme. Quando, alla fine dell'anno, gli chiedemmo quanto dovevamo dargli, lui ci disse che l'anno seguente ci avrebbe messo a disposizione ancor più terreno, se ne avessimo avuto bisogno. Non incontrai più, nella mia vita, una persona altrettanto generosa.
Boemia. Famiglia di Barbara Dalsasso.
Quando nel marzo del '17 mio fratello, compiuti i diciott' anni, venne chiamato alle armi, presi il suo posto nella grande fattoria che c'era in paese. Ero addetto ai buoi, al trasporto di prodotti e al lavoro dei campi che erano immensi. Nell'azienda lavoravano otto coppie di buoi e due di cavalli. All'approssimarsi dell'inverno il papà si rivolse all'amministratore per l'acquisto di un consistente quantitativo di patate, provvista occorrente fino alla primavera successiva. L'amministratore lo invitò a sentire i bisogni delle altre famiglie di profughi, e così ne ottenne per tutti dodici quintali. Nei nostri confronti non vennero mai meno la comprensione e il concreto sostegno.
Risolsi il problema quotidiano di cosa mangiare, quando arrivai come aiutante nella casa del capocomune. Vi ero trattato bene: mangiavo in cucina su un tavolo a parte, è vero, ma il cibo era lo stesso che mangiavano tutti. Un giorno passò da casa nostra una donna e mi disse che in città cercavano ragazze per lavori domestici. E così andai in città. Il mio padrone era addetto alla distribuzione dei generi di prima necessità ai profughi tirolesi. Aiutavo in casa, nella stalla e in campagna. Avevano cinque mucche, un maiale e trenta oche. Una volta la settimana passavo una sera a impastare; la mattina seguente, di buon'ora, portavo a cuocere nel forno di una casa vicina: era il pane per una settimana. Solo le famiglie grosse avevano i forni e presso di loro si servivano altre famiglie. La padrona non mi faceva mancare niente. Utilizzavo il denaro che ricevevo mensilmente per aiutare la famiglia e mandavo frequentemente una chleba a mio fratello che era soldato. I conoscenti che venivano a farmi visita da Mitterndorf si meravigliavano del trattamento e della considerazione che i padroni avevano per me. Questi ultimi dissero alla mia mamma, quando venne il momento di ritornare a Roncegno: "Signora, lasci qui la ragazza; per noi sarà come una della famiglia".
Non ci trovammo mai in gravi difficoltà per la mancanza di cibo. Con i soldi che ricevevamo, qualche bricco di canederli che portava a casa mia sorella, domestica presso una famiglia di benestanti, i buoni per provvederci di patate, qualche lavoretto che facevamo anche noi ragazzi, le galline che potevamo tenere, si tirò avanti. Ricordo ancora che andavo spesso con un secchiello alla fabbrica della birra Pilsen e me lo riempivano gratis.
Qualcuno riuscì addirittura a mettere da parte qualche risparmio.
La mamma e la zia si occuparono per qualche tempo in una fabbrica. Con il salario percepito, il sussidio per i profughi, la spigolatura, la raccolta di frutti (prugne in particolare) e di erbe nei prati, si poté vivere. Si risparmiò, anzi, un gruzzoletto che ci permise di acquistare una capra appena ritornati a Roncegno. Noi aiutavamo nel lavoro dei campi. Finiti i raccolti, chi voleva trovava occupazione in una fabbrica della zona, che produceva indumenti per militari. Il papà lavorava alla costruzione di strade nel campo profughi di Wagna, in Stiria. Mettemmo così da parte un po' di denaro che, su consiglio di un parente, spedimmo a Roncegno: non arrivò mai. A volte, pur non mancando il necessario, sentivano il bisogno di mangiare cibi appartenenti alla propria tradizione culinaria. La signora E. C. scrisse alla sorella il 5 febbraio 1916 da Radovany: "A noi qui mancano tanti generi, ma per questo la fame non l'abbiamo patita. Vò girando però, ora in un paese per orzo, ora in un altro per pane, e così ci siamo sempre ingegnati abbastanza. Solo la farina di polenta, qui, è un pezzo di tempo che non si trova e di questa si è sempre bramosi. Tu mi dici che puoi spedirmene e io e anche il padre siamo proprio per pregarvi di questo piacere: se potete spedirne magari mezzo quintale, ché allora la dividiamo coi Serafini; qui tutti la desiderano. Se non potete spedirne tanta, vi prego almeno di alcuni chili per noi, prima però informatevi bene se sarà permesso spedirne o se sarà proibito. Riguardo ai soldi, mandateci quello che importa, che spediremo tutto prima".
Il nonno diceva di frequente: benedetta la Valsugana con la sua polenta e il suo vino.
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