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LINO DALPRA'
"QUELLE 20 LIRE CHE MI SALVARONO LA VITA"
di Marika Caumo
Nasce il 12 novembre 1922. «Ancora mi ghe son de quela clase» ci tiene a precisare. Seduto al tavolo della cucina, Lino Dalprà inizia a narrare la sua guerra. Accanto, affaccendata a preparare il pranzo, la moglie. Che ascolta attenta e corregge quando c'è da correggere.
Una famiglia di contadini la sua, lavoro che aveva intrapreso anche lui. Poi quel giorno, il 26 gennaio 1942. Non aveva nemmeno 20 anni quando i carabinieri si presentarono a casa con la cartolina. Con lui partì Eugenio Rensi di Marter, gli ultimi due scaglioni. «Più che al Borgo non ero mai andato prima, l'altro invece (il Rensi), era più sveglio» commenta. «Eugenio voleva sapere dove mi sarebbe piaciuto andare a fare la naja: in fanteria dissi. Lui invece voleva andare nei bersaglieri. Entrai prima io». E dentro, nell'ufficio, il tenente ufficiale Mario Montibeller, che aveva fatto la guerra in Spagna, decise invece che Lino sarebbe andato nel 5° Bersaglieri a Bolzano ed Eugenio in fanteria. Ma Rensi voleva a tutti i costi entrare nei bersaglieri: il sogno era quello di raggiungere i suoi fratelli, inviati in Africa proprio con quel corpo. «Andò dal caporale e poi mi diede 20 lire. Io ero ben contento, anche perché non sapevo andare in bicicletta» ride Lino. Così fu fatto lo scambio: Rensi fu inviato a Bolzano e Lino in fanteria, a Treviso, nel 2° Battaglione 227 Divisione Rovigo, appena ricostituito con la classe del '22.
«Non ho mangiato per 2-3 giorni. Mi davano brodo con dentro un pezzo di "fagaro", che pareva carne. Da ròsegar. Dopo 15 giorni ho iniziato a chiedere che mestiero che se fa. Fui mandato in cucina» aggiunge. Non fu facile, le giovani reclute erano vittime dei più anziani. Il vecchio, classico nonnismo, che per qualche settimana non lo ha fatto dormire: dalla sveglia con le marmitte alle 11 di sera, alle secchiate di acqua fredda. E poi "tirar su le ramine" a mano, invece di usare il montacarichi. E al colonnello si doveva "sbattere l'ovetto col cognac". Poi arrivò un nuovo colonnello, un trentino. «Era un porco, un cattivo» ricorda Lino. «Dal 26 gennaio al 5 aprile avrò mangiato pastasciutta una volta. Poi il 5 aprile il tenente, Luigi Caffarina di Genova, mi disse: se vuoi andar su vai. Eravamo in 5, c'erano anche Rino Dalfollo e Tullio Franceschini da Carzano. Siamo partiti all'una a Treviso, 120 chilometri in bici per tornare a casa. Avevo riempito lo zaino con formài e pagnòche, ne ho dato a tutti. Una volta a Telve non eravamo più capaci di venire avanti, troppo affamati». Occorsero ventiquattro ore per arrivare a casa. Ci rimasero appena altre ventiquattro, all'una del giorno dopo la ripartenza per Treviso. Qualche tempo dopo li trasferirono in Piemonte, per poi mandarli sul fronte francesce. In Piemonte Lino trovò un compaesano, l'alpino Carlo Cipriani, che faceva il cuoco. I ricordi sono quelli dei pidocchi e delle cimici, che si attaccavano alla testa. Quindi a Sanremo, per avvicinarsi al confine francese. «C'erano i campi pieni di fiori e portavamo i garofani alle crocerossine» ricorda. «Dovevamo partire per la Francia nella notte, ma la fortuna volle che fosse firmato l'armistizio tra italiani, tedeschi e francesi. Così da Sanremo ci portarono a Ventimiglia, quindi ad Imperia. Infine mi mandarono a San Bartolomeo, un piccolo paese a poco più di 6 chilometri di distanza. E' stata la mia fortuna». Come guardie costiere da terra, pattugliavano la strada Aurelia. Lino fu impiegato come magazziniere in una vecchia chiesa. Accanto il nuovo edificio sacro nel quale, era il 1 maggio 1942, durante la messa serale, seduto nel primo banco Lino si accorse di una signora che lo osservava. L'orchestra cantava, il prete era giovane. «Come mai sa questa canzone? Mi chiese quella donna. La so polito, a tre voci, risposi. Era la moglie del capitano. Da quel giorno per me era come se fossi a casa» continua Lino, che, per sdebitarsi, le mandò del caffè e dello zucchero. «Mi ha ringraziato, ma non ha voluto nulla». Il capitano gli fece il permesso per uscire la sera e cantare con il coro parrocchiale. Lui già cantava in quello di Roncegno, e poi anche nel S.Osvaldo, come basso secondo. Al contempo continuava a lavorare in magazzino, faceva assistenza. «Ho avuto da litigare con dei sottoufficiali. Mi hanno dato del camorrista e ho rifilato una sberla a uno. Ma grazie al capitano sono stato scagionato» prosegue.
Con gli altri compagni Lino andava d'accordo. «Il 90% di loro erano analfabeti, c'erano sardi e pugliesi, non sapevano leggere ne scrivere. Non erano andati a scuola. Così mi dettavano le lettere da scrivere alle spose e alle famiglie, e poi leggevo quelle che ricevevano. Sapevo le miserie di tutti! ».
Arriva dunque il settembre 1943, l'armistizio di Cassibile . «La caduta del fascismo. Ci portarono a Genova, al porto, poi a La Spezia, sempre via terra. La nostra destinazione era la Corsica. Ma uno del magazzino non ci voleva andare perché era morto il fratello, meglio la Russia. A mezzanotte muli e camionette erano tutti caricati sulla nave per la Corsica. Ma noi avevamo altri progetti. Verso le 4 passarono otto tedeschi, ci videro e ci lasciarono andare, tenendoci sotto controllo con le mitragliatrici. Siamo scappati in sette su per le montagne: ci hanno lasciati liberi. Da lontano sentivamo le bombe e le mitragliatrici. Arrivati a Pontremoli (comune toscano al confine con la Liguria), prendemmo il treno» racconta. Qualcuno voleva andare verso la Francia, ma Lino disse no, meglio andare verso Milano. «Un paio mi hanno ubbidito. Gli altri no: li hanno presi e portati in Germania come prigionieri. Noi invece ci siamo fermati per quattro mesi a San Bartolomeo, nascosti presso una famiglia di marinai. Io aiutavo il capofamiglia a mungere le vacche, a strappare i carciofi, a togliere le foglie alle vigne. Intanto i tedeschi continuavano a passare con la moto sull'Aurelia. C'erano due ragazze che ci portavano il caffè a letto, avevamo anche le zanzariere: ci trattavano da gran signori. Avevo trovato anche una ragazza, pensi che dopo 25 anni è venuta a trovarmi, a Roncegno» continua. Quindi la decisione di tornare a casa, in Trentino. Non a piedi ma con il treno. «Nascosto da un cesso all'altro, sono arrivato fino a Marter. La guerra qua non era finita, c'erano ancora i tedeschi, alle terme c'era il comando delle SS. Dal Marter ho fatto i prai, la Larganza. Finché ho raggiunto casa, mi sono nascosto nella stalla e per far capire a mia mamma che ero li, da sotto gli battevo con un palo sul solaio. Alla fine a me è andata bene, tutto sommato ho fatto una bella naja» conclude.
Non così è andata invece a Eugenio Rensi. Quello scambio fanteria-bersaglieri fatto con Lino, per il quale aveva pagato anche 20 lire, gli è stato fatale. «Dopo cinque mesi a Bolzano mi scrisse: parto per l'Africa. Morì due-tre giorni dopo il suo arrivo» termina Lino. Uguale amara sorte per i suoi due fratelli.
Lino Dalprà è il primo a destra seduto sulla sedia
LA DIVISIONE ROVIGO
Le origini della divisione si fanno risalire alla Brigata «Rovigo«, costituita durante la Grande Guerra, il 20 maggio 1916, sul 227º e il 228º Reggimento fanteria e sciolta il 15 novembre del 1917. La Divisione «Rovigo« (105ª) si costituisce a Padova il 15 marzo 1942, assumendo alle proprie dipendenze i ricostituiti 227º e il 228º Reggimento fanteria ed il 117º Reggimento artiglieria per Divisione di fanteria. Dalla zona di guarnigione di Treviso-Padova, nel giugno 1942 viene trasferita in Val di Susa e Val Chisone ed a novembre in Liguria occidentale, a copertura della fascia costiera compresa tra le località di Loano, Albenga, Imperia, Sanremo e Ventimiglia, in supporto alla 201ª Divisione costiera. Qui rimane fino a quando, in seguito all'Armistizio di Cassibile, si scioglie il 9 settembre 1943.
Lino Dalprà
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