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FAR PRESTO A FINIR SENNO'...
(testimonianza - riepilogo)
di Vitaliano Modena
Adele Petri conservò il ricordo in versi di alcuni aspetti dell'internamento a Mitterndorf.
Li proponiamo perché racchiudono annotazioni e sentimenti che possono rivelarsi utili per la comprensione delle vicende e degli stati d'animo vissuti dai profughi.
La vita nelle baracche.
Son già diciotto mesi che siamo qui internà,
ridotti ci siamo al pari di baccalà.
Comincia la mattina con un poco di caffè,
che a dirlo proprio franco si può lavarsi i piè.
Quando a mezzogiorno torniamo dal lavorar,
rave con cappucci abbiamo da mangiar.
E quando alla sera vogliamo riposar,
un battaglion di cimici ci viene a svegliar.
Dentro nella cucina abbiamo i cucinier,
due russi cucinisti e un luganeghier.
E se la blabba nostra la viene in scarsità
ci metton dentro acqua in grande quantità.
Quel che abbiam di buono è la libertà:
si può andare a Sviles e anche a Oberlach;
ma poi se fora stemo abbiamo il carcerier,
il vecchio scovazzero e il cane d'ingegner.
Se altri la ciucca prendono a ripetizion,
vanno a finir la sbornia dentro la prigion;
chi vuole avere migliori informazion,
domanda al Barbareto che lui ha condizion.
Questa è la vita infame che loro ci fanno far:
freddo, prigione e fame e sempre lavorar.
E sopportiamo tutto con rassegnazione,
mentre i fratelli nostri san davanti al cannone.
Coraggio che a Trento abbiamo da veder
passeggiar pel corso il superbo bersaglier.
Ma tu Italia bella fa presto fa a finir,
sennò lasciam le ossa qui tutti a Mitterndorf.
Il barba di Mitterndorf.
Quando la mattina nell'Ausstellung siamo per entrar
le donne pian pianino si avviano a lavorar.
Ma il barba di soppiatto ci viene a disturbar:
preste donne, lavorate; non state a chiacchierar.
E se il lavoro è poco, ci dice francamente:
vi calerò la paga perché non lavorate niente.
E poi pian piano entra nel magazzino
a far tagliar le fette del pane piccinino.
E se la posta arriva non la vuole dispensar;
la dà quando vuoi lui per farci tribular.
Alle Il e tre quarti si prepara sulla porta
con l'orologio in man attento che non si sorta.
Arrivano le 12, si ritira in magazzin,
per dispensar le carte del pranzo sopraffin.
Entriam nella cucina, in fila ci tocca andar,
a prender l'acqua calda che ci hanno preparà.
Ma le nostra budella che sentono la fame,
brontolano che non voglion bagni, ma roba da mangiar.
E dopo aver pranzato andiamo a riposar,
stanche di questa vita che non possiamo più parlar.
E guarda il barba che viene e che va,
che passi, che rabbia e che occhi che fa.
Mitterndorf. Un oggetto-ricordo.
Vidi una donna e fuggii.
Un'altra testimonianza ci presenta un complesso di esperienze travagliate, vissute in terre d'esilio.
Dietro le espressioni, le parole, i fatti del tutto scarni si può solo figurare quel campo esteso di sofferenze che hanno lasciato nella protagonista (come in altri che abbiamo conosciuto) segni indelebili.
Abbandonato il maso, giungemmo a Canezza, dove ci fermammo quattro mesi, ospiti di contadini. Il papà e mio fratello lavoravano via, mia sorella era a servizio presso una famiglia del luogo. lo, più piccola, la seguii un giorno, tanto per prender qualcosa da mangiare. Ma quando fu l'ora del pranzo, il capofamiglia esclamò: "Cosa vuole questa? Non si guadagna il pane nemmeno l'altra, figuriamoci questa. Vattene!". lo scappai nella stanza dei "cavalieri" e piansi. Più tardi la padrona mi portò da mangiare, però dovevo ritornare dalla mamma. Diversi uomini e molte donne lavoravano alla costruzione di una strada. lo mi misi con loro; passeggiavo su e giù come vedevo fare dal caposquadra. A mezzogiorno mi presentai con una gamella per prendere il cibo. Mi chiesero: "Cosa vuoi tu?". "Da mangiare". "Ma tu non hai lavorato". "Come no, ho fatto la capo". "Allora vieni anche tu". E così ricevetti la mia porzione di minestra e di carne. Trascorsi alcuni mesi, mio padre decise di raggiungere i compaesani a Mitterndorf o in Boemia. La mamma, però, che era in cattive condizioni di salute, non se la sentiva di fare un viaggio tanto lungo e volle rimanere a Canezza. La richiesta venne accolta, così noi quattro bambini partimmo con il papà perla Boemia. Che viaggio! Non si sapeva su quali treni salire, dove cambiare, che direzione prendere. Giungemmo a Fostenbruck,vicino alla Selva Boema. Nel paese c'erano altre famiglie trentine e diversi galiziani. Ci assegnarono una sola stanza in una casetta bassa, occupata, per il resto, da paglia. La sera, per dormire, mettevamo i pagliericci sul pavimento e la mattina si tirava via tutto. In quel paese si visse con le difficoltà e i problemi di tutti. Frequentai la scuola boema. Un po' alla volta imparai diverse parole, qualche espressione e le preghiere. La gente non ci era ostile, anche se non mancavano incomprensioni. Poi tempi si fecero duri, e trovare pane e cibo a sufficienza era sempre più problematico. Si cominciò a chiedere la carità. A quel punto il papà decise di domandare il trasferimento della famiglia a Mitterndorf, che riuscimmo a ottenere. A Mitterndorf il cibo era scarso, ma veniva dato a ogni pasto; non buono, ma tutti i giorni. Ci fornivano anche vestiti con regolarità. E poi c'erano le scuole e i preti italiani. La nostra sorte si accomunò a quella di tanti roncegnesi; e le giornate trascorsero fra la scuola e la vita in baracca. Ritornati nel nostro paese, salimmo trepidanti le ripide strade che portavano al nostro maso, la Rozza. Trovammo la casa aperta e segni di vita: la mamma era quindi ritornata prima di noi. lo corsi avanti per abbracciar/a, mi affacciai all'uscio della cucina affumicata, vidi una donna al focolare e fuggii; non riconoscevo più mia madre; lei non conosceva più me.
Mitterndorf. Un gruppo di capi-baracca: In prima fila Giovanni Hueller, primo da sinistra;
in seconda fila Antonio Montibeller, quarto da sinistra.
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