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IL RIENTRO
di Vitaliano Modena
Giunse la fine della guerra, la fine tanto attesa d'un incubo, di una tremenda incertezza riguardo alla propria vita e a quella dei parenti al fronte o dispersi in mille luoghi, di tante limitazioni e difficoltà.
Ripresero vigore il desiderio ardente di patria e la speranza e la voglia di futuro, nel rispetto per le tribolazioni e le vittime immolatesi per ideali e illusioni che erano loro estranee.
Tra i profughi dilagò contagiosa la fretta incontenibile di fare fagotti e di risalire sul treno per ritornare, ritrovare, ricostruire, ricominciare.
All'annuncio della fine della guerra gli abitanti del paese scesero in piazza, ammucchiarono le insegne austriache e le bruciarono. La banda suonava. Anche in casa dei boemi che ci ospitavano si fece festa. Quando si seppe che la guerra era terminata, andammo a festeggiare in birreria; feci la sbornia anch'io, per quanto fossi piccola.
Il 1918 era destinato però a trascorrere tutto prima che la gran massa dei profughi potesse far rientro.
Il comitato nazionale di Praga, il 14 novembre, aveva proclamato la repubblica e dichiarato decaduti i tradizionali legami con gli Asburgo. In quella fase si consolidarono i già positivi rapporti dei nostri profughi con la gente boema.
I signori presso cui lavorava mia sorella tentarono di convincerla a rimanere presso di loro, tanto la stimavano e le volevano bene. E i miei due fratelli avrebbero potuto rimanere nella fattoria, apprezzati come persone volonterose e fidate. Ma il desiderio di ritornare nella propria terra fu più forte e così ci accingemmo tutti insieme al rientro.
Per molti fu gennaio e anche l'inizio di febbraio il tempo del rimpatrio.
Si allestirono i convogli.
I vagoni adibiti al trasporto delle merci vennero organizzati alla meglio per accogliere persone, pagliericci, coperte, povere masserizie e oggetti utili alla casa e al lavoro.
A difendere dal freddo avrebbero dovuto servire fornelli alimentati con legna e carbone da provvedersi nelle stazioni di transito.
Vienna, Linz, Salisburgo, Innsbruck furono guardate con spirito nuovo.
L'animazione, l'aria di gioiosa confusione, le bandiere e le coccarde, i generosi rifornimenti ai profughi consolarono e rinfrancarono, pur nella consapevolezza che arrivati al proprio paese sarebbe stato duro ricostruirsi un tetto, la stalla, i campi, gli arredi, gli attrezzi, le scorte, la sicurezza in una vita feconda.
Boemia. Oggetti - ricordo.
Il traballare continuo nel vagone, gli urti e i sobbalzi, il precipitare improvviso di cose ammucchiate le une sulle altre, l'eccitazione nelle fermate, le lunghe soste snervanti distoglievano solo momentaneamente dai pensieri chi sentiva in sé il bisogno di immaginare intensamente il futuro e quel qualcuno che, non prevedendo un domani, sentiva il passato inaridirgli il cuore e la morte spegnere in lui la vita.
Alla stazione furono depositati i vagoni una settimana prima e ogni famiglia portava in quello che le era stato assegnato la propria roba. Avevamo anche un sacchetto di patate da seme. Il decano ci disse che aveva inserito i nomi dei profughi nel libro della parrocchia a ricordo della nostra permanenza. Il giorno della partenza le autorità ci accompagnarono alla stazione per sottolineare l'importanza dell'evento e la stima che la nostra gente aveva saputo conquistarsi.
Quando arrivò il momento di partire, gli amici boemi ci diedero tante cose per il viaggio e per ricominciare la vita nei nostri paesi. Ci misero a disposizione una slitta che ci portò alla stazione e ci salutammo commossi. La famiglia che ci ospitò ci scrisse in boemo per una decina d'anni. Preparato tutto, salutai i padroni di casa e mi avviai verso la stazione, seguita dal loro cane (Jazza si chiamava, lo ricordo ancora). Quando salii sul treno abbaiava insistentemente perché voleva raggiungermi, e continuò mentre il treno si allontanava. Cominciò il viaggio nei vagoni, in cui erano state stipate persone e cose, e collocati fornelli a legna per difenderci dal freddo, intenso in quella stagione. A Budweis vedemmo, nell'atrio della stazione, due carabinieri italiani. Facevano parte di un corpo di spedizione per sorvegliare il rientro dei nostri soldati e dei profughi. Il viaggio durò otto giorni. A Trento ci sistemarono parte presso l'asilo Zanella, parte presso il seminario e parte ancora nella caserma Perini, in attesa di ricevere il permesso di ritornare al paese.
Le famiglie trovarono tutte la possibilità di essere ricoverate anche provvisoriamente nella propria casa o in altre, e ripresero il viaggio per l'ultima tappa.
I piccoli inconvenienti non erano finiti: la locomotiva, non tenendo conto della sollecitudine dei trasportati, procedeva a fatica, sbuffando e sostando, accumulando ritardi smisurati.
Paese dopo paese si definiva sempre più nitidamente il paesaggio negli aspetti più familiari.
Lo sguardo carezzava quelli più meritevoli d'attenzione e catturava i più amati, testimoni fidati di un vincolo che la necessità aveva allentato ma non scisso.
L'approdo alla stazione, la vista delle campagne in parte abbandonate e inselvatichite, delle case danneggiate, del paese in rovina, mossero al dolore e al tempo stesso alla gratitudine.
La realtà era cruda, ma vigorosa la fede nella rinascita.
Giunti alla stazione di Marter scendemmo subito e con i nostri fagotti ci avviammo verso i Brustolai. Le campagne erano bianche di sassi portati dalla piena dei valloni. Quando riuscimmo a distinguere chiaramente la nostra casa, un anziano parente si fermò, sedette su un sasso e si mise a piangere. Dalla casa erano state asportate finestre e porte: ma rimanevano i muri e il tetto. Molti trascorsero le prime notti sdraiati sulla foglia in ripari di fortuna, presso parenti o vicini. Nei primi tempi si pensò a riparare alla meglio l'abitazione, dedicandosi a rifare serramenti, pavimenti, poggioli che, essendo di legno, erano serviti ai soldati per riscaldarsi e ai compaesani, rientrati per primi, a rabberciare le loro dimore. Regnava a Marter una totale disorganizzazione. Nel tratto tra gli Angeli e i Gasperini era stato eretto un baracca mento ancora occupato dai soldati italiani che ci erano di poco aiuto. Da loro si andava tutti i giorni a prendere un po' di minestra calda e null'altro. I negozi erano sforniti. Bisognava arrangiarsi in tutto. Poi, anche i soldati se ne andarono e per avere della minestra bisognava recarsi fino a Roncegno, dov'era rimasto un comando militare. Mentre noi eravamo a Trento presso le caserme, la mamma venne a Marter per vedere se era possibile abitare la nostra casa. Era in cattive condizioni. Uno dei locali ripostiglio situati al piano terreno risultava occupato da soldati e l'altro da bombe. La mamma ottenne di far trasportare altrove le munizioni, e così poté spolverare i muri, sistemare il pavimento, pulire i vetri che erano stati conservati. Andò quindi a prendere la famiglia. In quel vano trascorremmo l'inverno e nel locale attiguo ospitammo una famiglia di conoscenti. Della lana lasciata in cosa, dei vestiti, degli utensili, della roba ammassata in cantina e fuori davanti alla casa, nemmeno traccia. I campi erano stati in parte lavorati dagli operai dell' Anbau, gli altri apparivano una desolazione. Penso ancor oggi, talora, a tutto quello che avevamo e che ci fu portato via dai soldati e dalla nostra gente, alla fame e alle preoccupazioni di allora, alla morte dello zio in Russia ..., e mi prende la tristezza.
Una signora ha raccontato il seguente piccolo fatto avvenuto verso la fine della seconda guerra mondiale, che si ricollega alla permanenza in Boemia durante il primo conflitto.
Prestavo servizio presso la cartoleria Montibeller, e un giorno entrò un soldato che parlava l'italiano con difficoltà. "Lei è tedesco?", gli dissi. "No, sono cèco". "Sono stata anch'io in Boemia, a Pilgram, durante la prima guerra mondiale". "A Pilgram? lo sono di Pilgram!", mi rispose lui, emozionato. E così parlammo della nostra esperienza di allora; lo invitai per il giorno seguente a casa nostra per parlare con papà che conosceva bene il boemo. Ma quel giorno stesso i militari lasciarono il paese.
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