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IL RIMPATRIO
di Vitaliano Modena
Il villaggio di Mitterndorf al tempo dei profughi.
I profughi, che avevano lasciato la propria terra con la convinzione che l'allontanamento sarebbe durato non più di otto giorni, attendevano con ansia, impazienza, spesso nello sconforto, la notizia del rimpatrio che mai arrivava.
Ancora nel giugno del 1916 furono avvisati i valsuganotti ch'era possibile far ritorno come lavoratori in qualche paese della loro valle (nella zona di Levico, ad esempio).
E il 19 dello stesso mese partì da Mitterndorf un convoglio di profughi perché andassero a lavorare, sotto la direzione militare, la campagna dalla quale ricavare quei prodotti di cui tutto !'impero aveva urgente bisogno, e si dedicassero alla ricostruzione.
D'altronde, la vita in diversi paesi scorreva piuttosto tranquilla, perché essi venivano a trovarsi relativamente arretrati rispetto alla linea del fronte che passava vicino a Marter, e quindi non disturbati da operazioni belliche di una qualche rilevanza.
I nostri profughi spasimarono quando videro rimpatriare famiglie di Tenna (il 5 maggio del '17) e di Caldonazzo (il 15 dello stesso mese), e quando il primo settembre se ne andarono quelle di Bosentino e subito dopo quelle di Vattaro, Centa, Calceranica, Trento, e di altri territori dichiarati aperti per il rimpatrio, e quando il 17 ottobre partirono i vermigliani.
Anche qualcuno dei nostri esuli poté andarsene anzitempo, come i componenti della famiglia Baldessari che il 17 luglio del 1917 presero il treno per il Trentino (Povo), dove c'era bisogno di braccia per lavorare la terra, e le famiglie Pola, Rover e qualche altra che lasciarono l'accampamento per le terre più ospitali della Valsugana.
La zia, che sapeva il tedesco, apprese in anticipo che sarebbero stati rilasciati permessi di rientro in Valsugana a operai che intendessero lavorare sulle strade. Il nonno, che era capo-baracca, avanzò subito richiesta in tal senso. Essa venne accolta e si fece bagagli. Noi familiari, che non eravamo autorizzati a lasciare l'accampamento, ci nascondemmo il giorno prima della partenza in un vagone del treno e giungemmo a Trento. La nostra destinazione era la zona di Pergine, precisa- mente Susà. Varie famiglie lasciarono clandestinamente Mitterndorf come noi, ma vi vennero per lo più rinviate, anche perché alle autorità di Trento furono segnalate le partenze arbitrarie.
Mitterndorf. La famiglia di Lino Baldessari poco prima del rimpatrio.
Nella generalità dei casi i profughi roncegnesi dovettero attendere la fine della guerra, del 1918, e una parte anche l'alba del nuovo anno per poter lasciare le baracche.
E venne finalmente anche il momento a lungo invocato; la tempesta della conflagrazione che travolse l'Europa si esaurì e dalle rovine fumanti si sprigionò la voglia di pace.
I soldati presero d'assalto i treni per rientrare in patria, e militari italiani, con alcuni ufficiali, s'impossessarono dell'accampamento di Mitterndorf.
Comparvero le bandiere tricolori e le coccarde tenute nascoste con cura per qualche anno.
Solo sul finire della guerra credemmo alle voci che annunciavano la pace imminente e il ritorno a casa. A scuola giunsero un giorno soldati italiani con le bandiere. Tolsero dalla parete i ritratti dell'imperatore e dell'imperatrice e li gettarono sulla strada. Ci dissero: siete redenti. La statua di Francesco Giuseppe, posta sul piazzale davanti alla chiesa, venne rovesciata e la testa presa a calci. Legato un filo di ferro attorno al busto, i ragazzi la trascinavano con grande baccano per le vie del lager. Anche i gendarmi, stanchi della guerra, buttavano via la divisa. Poiché eravamo diventati italiani, ci dettero i fiocchetti tricolori e ci invitarono ad andare per le vie in corteo. Cantavamo festosi: l'è morto Ceco Bepe, 'I n'à fata una de grosse ...
Delusione e disorientamento presero coloro che credevano nell' Austria e si sentivano defraudati di una fede.
Quando arrivarono gli italiani, molti profughi non volevano credere di far parte dell'Italia, avrebbero dato chissà cosa per rimanere austriaci.
Con il cuore in tumulto i profughi lasciarono le baracche dietro di sé e si diressero con casse, cassette e pacchi verso la stazioncina del villaggio di Mitterndorf, portandosi dentro quella città di legno e mille ricordi incancellabili.
Troppi furono costretti a pensare agli assenti.
Sul treno non salirono la mamma e mia cugina rimaste nel camposanto di Mitterndorf. Mio zio era morto in Galizia.
Mitterndorf. I fratelli Giuseppe ed Emilo Montibeller con la mamma Teresa e la sorella Rosa.
Fra Natale e Capodanno partì il primo convoglio di profughi, l'ultimo il 5 gennaio 1919.
Quando venne annunciato il rientro, alla stazione giunse un treno per il trasporto dei profughi e vi rimase alcuni giorni per consentire il carico dei bagagli. La strada che dal lager conduceva alla stazione era un andirivieni frenetico. L'ora tanto attesa era giunta: non sembrava vero, tanto che c'era chi temeva che il treno partisse prima che fossero ultimate le operazioni di carico. Quando il treno cominciò a muoversi, si innalzò un grido che durò fino a quando il lager scomparve alla vista. In noi non c'era solo gioia: pensavamo anche ai morti e al paese che sapevamo distrutto. Quando eravamo pronti per partire, il treno procedette a ritroso per un tratto fino al cimitero, dove la banda suonò la marcia funebre. Tutti piangevano. Lo lasciavo in quella terra due miei figli. Il treno cominciò lentamente a muoversi. Durante il viaggio cantavamo l'inno al Trentino imparato in treno. A Innsbruck ci fu riservata un'accoglienza trionfale. Ricevemmo latte, pane bianco, frutta, regali dai soldati italiani. La stazione era imbandierata e affollata di soldati italiani che ci offrivano biscotti, cioccolata e ogni ben di Dio. Molti ci abbracciavano commossi. Capi-treno erano Vittorio Pola e Giovanni Tesainer. Dopo Trento, il treno procedeva molto lentamente: avanzava un poco e poi si fermava. Impiegammo così tutta la sera per giungere a Roncegno. Il viaggio fu regolare fino a Trento, dove sostammo un paio di giorni. Finalmente giunse anche il permesso di ripartire. Arrivammo a Marter che era notte. In alto, verso la montagna, vedevamo la fioca luce delle abitazioni del "Mas del'Aria", dove abitavamo noi. Erano già ritornati alcuni dalla Boemia e dai paesi del Trentino. Dormimmo quella notte sulle foglie secche dello strame, perché l'abitazione non era agibile. Quando il treno arrivò a Marter, era notte, pioveva. Salimmo verso il paese e trascorremmo la notte alla villa Gherla. Il giorno seguente fummo ospitati alle Terme. Arrivammo a Roncegno il giorno dell'Epifania. A casa nostra era impossibile abitare e trovammo sistemazione provvisoria all'albergo Vittoria, anche quello in precario stato di conservazione. Ricordo che pioveva nella stanza.
Per qualcuno il viaggio di ritorno si rivelò drammatico.
Partii da Mitterndorf con mio nipote Adolfo ammalato di spagnola. A Salisburgo si ammalò anche mia figlia, a Innsbruck pure la cognata: io ero l'infermiera di tutti. A Trento la cognata aveva 40° di febbre e fu ricoverata all'ospedale. Arrivati al paese,vegliai mio nipote per un mese; aveva perso conoscenza, si temeva dovesse morire. Finalmente ritornò in sé. Da quel giorno continuò a star meglio e, per grazia di Dio, guarirono tutti.
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