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LA CONQUISTA DELLA FIDUCIA
di Vitaliano Modena
Anche non considerando le eccezioni, le esperienze si diversificarono molto, secondo i luoghi di assegnazione, le possibilità economiche e la sensibilità delle persone.
Chi venne a trovarsi in una zona agricola fertile, dove c'era esigenza di manodopera e i raccolti erano copiosi (anche se dovevano essere conferiti all'ammasso), questi poteva disporre di tutto il necessario.
Favorito risultò anche chi era inserito fra la popolazione di lingua cèca.
Coloro invece che furono destinati fra gente più povera, già di per sé bisognosa, o vennero mandati fra la popolazione di lingua tedesca, costoro subirono più frequentemente situazioni di disagio, di fame, di incomprensioni e di iniquità.
E questo, senza giungere a ingiuste generalizzazioni.
Il nostro era un piccolo centro abitato, a due ore di cammino dalla borgata di Wildenswert. C'erano la chiesa, il municipio, una macelleria, una locanda, qualche stalla per i muli dei soldati e diversi casolari di campagna allineati lungo la strada. Giunto il momento di lasciare lo stanzone, dopo due mesi, ci diedero un locale in una casetta di proprietari tedeschi. Ricordo la fame sofferta e le umiliazioni patite. Più tardi, ottenemmo un alloggio in casa di boemi, dove ci risollevammo fisicamente e moralmente, perché trovammo comprensione e possibilità di sostentamento.
Un gruppo consistente di abitanti di Marter riuscì a rimanere unito nel paesetto di Bechin, nei pressi di Tabor, con famiglie di Roncegno e di Ronchi.
L'essere insieme consentì maggiore solidarietà e l'opportunità di avere con sé il parroco don Liberio Clamer e, in un secondo tempo, un maestro.
Purtroppo, però, Bechin era un paese povero, con poche risorse da condividere.
E fu fame. Altri aggruppamenti fecero di tutto per non separarsi.
Una parte di noi "cadenzoti", cinque famiglie, riuscì a rimanere unita nello stesso abitato. Altri erano in villaggi vicini; a venti minuti si trovavano i marteroti. Questo ci fu di aiuto.
Se a qualcuno venne riservata una generosa ospitalità fin dall'inizio, i più s'imbatterono invece nel sospetto o nell'avversione, comprensibili del resto, trattandosi di inserimento obbligato di una comunità etnicamente diversa all'interno di un'altra, dopo le esperienze negative da questa avute con altri profughi, in un periodo di gravi ristrettezze e limitazioni causate dallo stato di guerra.
Boemia. Sono in piedi, da sinistra: Emanuele Broilo, Luigi Montibeller, Agostino Dalprà;
seduto, a destra, un Gasperini.
Poi, però, la volontà della nostra gente di non rimanere inerte in attesa di interventi esterni, ma di darsi da fare subito per superare gli ostacoli, per procurarsi il necessario rendendosi utile e aiutando nei lavori le famiglie del luogo; la disponibilità ad apprendere la nuova lingua per riuscire a esprimersi e comunicare; la cultura, la religiosità, la dignità, la compostezza e la civiltà dei profughi spesso additate ad esempio anche alla popolazione locale; la bontà e la generosità della gente boema, in particolare di quella cèca; il senso di responsabilità delle autorità civili e religiose che in molti casi si presero a cuore la situazione degli esiliati; la condivisione degli ideali di indipendenza nei confronti di Vienna; tutto questo consentì un'estesa integrazione umana basata sulla reciproca accoglienza, sulla collaborazione, su sentimenti di profondo affetto persino, tanto che le proposte di affiliazione o di prolungamento del soggiorno in terra boema furono, alla fine, numerose.
La gente del posto non ci accolse con favore: aveva già ospitato profughi di altre nazionalità ed era prevenuta. Un po' alla volta, però, prese a stimarci perché prestavamo la nostra opera nei campi e nell'allevamento del bestiame. Per loro questa collaborazione era di grande aiuto perché, mancando degli uomini validi, non erano in grado di coltivare tutta la terra. Per noi essa si rivelò preziosa occasione di procurarci il cibo giorno dopo giorno, perché si riceveva sempre qualcosa da portare a casa. I signori che ci ospitavano presero a ben volerei tanto che, quando fu l'ora di ritornare, volevano che ci fermassimo almeno fino alla fine dell'estate. Con alcune famiglie di S.Brigida e del maso Sasso, arrivammo in una località dove si trovavano ebrei e profughi istriani. Gli ebrei avevano delle regole religiose particolari. Ricordo che una sera, di sabato, eravamo ospiti d'una di quelle famiglie, quando si spense la lampada che illuminava il locale: invitarono noi a riaccenderla perché loro, di sabato, non lo potevano fare. Gli istriani erano malvisti perché erano rozzi e rubavano, e così anche noi non fummo accolti con favore. Quando quei profughi se ne andarono, vedendo che il nostro comportamento era tutto diverso e che di noi ci si poteva fidare, allora cambiò il loro atteggiamento nei
nostri confronti. "Prazata taliani", porci italiani, ci dicevano i ragazzi boemi, e altre parolacce. A volte ci accompagnavano a casa da scuola tirandoci sassi. Ci davano botte e ci facevano dispetti d'ogni genere.
Nel saggio menzionato, Degasperi scrisse: "I profughi del Mezzogiorno erano stati preceduti dai settecento mila profughi della Galizia, la maggior parte dei quali e per i loro costumi e per le loro qualità negative di nazione e di razza (ebrei galiziani) erano cordialmente antipatici alle popolazioni.
Così la parola "profugo" era divenuta sinonimo di uomo sporco, pigro, inerte, speculatore, strozzino; solo lentamente e col passare dei mesi gli italiani riuscirono a sgombrare il terreno da questi pregiudizi e creare attorno a sé una fama migliore, tanto che in ultimo vi furono dei Comuni i quali pregavano le autorità d'assegnar loro invece che cento profughi galiziani duecento ed anche più italiani".
È arduo oggi verificare i comportamenti negativi dei profughi di altre etnìe.
Non crediamo, d'altronde, a un contegno in ogni caso irreprensibile di tutti i nostri profughi.
Certo è che la fama negativa dei galiziani e degli istriani è rilevata da parecchie memorie, che ad essa attribuiscono, a ragione o a torto, buona parte dei contrasti iniziali verificatisi con i profughi tiro lesi e in seguito ampiamente superati.
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