L'esodo - Gruppo Alpini Roncegno

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L'esodo

La 1a G.M.



L'ESODO

di Vitaliano Modena



I convulsi preparativi erano finiti. I parenti e i vicini premevano. L'essere in tanti dava coraggio, ma faceva aumentare anche il turbamento perché l'esodo stava assumendo dimensioni bibliche, con il rombo dei cannoni come lugubre accompagnamento.
Ognuno aveva il suo fagotto da portare: il necessario per il cambio, qualche indumento e' coperta, pane, un po' di zucchero, farina, patate, formaggio, la marmellata di sambuco, qualche gallina da spennare; ma anche la padella per il caffè e il paiolo,per la polenta perfino la bambola e la cartella con i libri di scuola.
Per le strade aumentava il vocio e l'andirivieni.
Dove si sarebbe arrivati? Si sapeva solo che Pergine sarebbe stata la prima destinazione.
I carretti tirati e sospinti a mano, i "carìoi"
(Cariòl: carretto a due ruote con cassa di legno.) e i carri trainati da vacche erano stracarichi; fra i sacchi, gli zaini, qualche forma di formaggio, e talora anche la damigiana di vino, comparivano e scomparivano i bambini più piccoli.
Gli altri seguivano col proprio fardello, tenendo in mano lo spago delle bestie che non potevano abbandonare.
Chi aveva voluto provare a trascinare anche il maiale, dovette rinunciare ben presto disperato, e lasciarlo libero per i prati della Larganza.
La Carolina, vecchia e sola (non tornerà da Mìtterndorf), portava in una gerla tutti i suoi averi, comprese le galline.
Su un carro si agitava un nugolo di bambini dei Larganzoni appartenenti ai Belini e ai Mosegoti.
Si tenevano d'occhio perché qualcuno non cadesse; a una famiglia succederà di arrivare a Pergine senza il bambino caduto dal carro durante la notte e di ritrovarlo il giorno seguente fra i compaesani che l'avevano raccolto.
Aggravarono il dramma dell'esodo certe particolari situazioni che nella normalità potevano non costituire problema o che addirittura erano motivo di grande gioia: l'attesa di una nuova creatura, la presenza nella culla di un neonato.
Tanti erano i bambini da allattare, di pochi giorni persino, sistemati in carrozzine o tenuti in grembo.


(Foto collezione privata)

Gli infanti e i fanciulli si lamentavano e piangevano irrequieti, legati magari a uno spago come i Baldessari, perché nella confusione qualcuno non avesse a smarrirsi.
Bisognava provvedere alle persone anziane non autosufficienti, ammalate, addirittura in punto di morte.
Alcuni di loro furono lasciati al ricovero del paese, altri seguirono i familiari sorretti a fatica o portati sulle spalle.
Vi fu chi rimase in casa, assistito con doppia angoscia,nell'attesa della morte e di una sepoltura senza esequie.
I casi umani sopra riportati (e molti altri sono emersi dalle interviste) non sono ipotetici o immaginari: si riferiscono tutti a situazioni vissute, a una realtà complessa quale quella di una comunità costretta in brevissimo tempo a fuggire in massa verso luoghi sconosciuti.
A quel tempo abitavamo ai Coverli e con noi viveva il nonno di 86 anni, gravemente ammalato. Non si poteva lasciarlo là, non lo si poteva trasportare, e bisognava scappare. Il giorno seguente morì. Fu messo su una slitta e portato al cimitero; ci volle del tempo anche a scavare la fossa. Poi toccò anche a noi partire. Allo scoppio delle prime bombe e dell'incendio che si sviluppò proprio vicino a noj, i miei familiari caricarono le cose essenziali sul carro, insieme con un'anziana vicina di casa, vi attaccarono le vacche e si rifugiarono alla villa Gherla. Avevano lasciato me in casa con il compito di accudire alla sorellina; sarebbero ritornati a prenderei entro breve tempo. Ma l'attesa mi pareva lunghissima, così decisi di prendere dalla gabbia l'uccellino al quale ero affezionato e, tenendo in una mano il lucarino e fra le braccia la sorellina, mi avviai verso villa Gherla. Quando arrivai l'uccellino era morto, soffocato. Chiesi al nonno un cucchiaio, scavai una buca e ve lo deposi.  
Fra i partenti della sera avanzata, qualcuno si fermò a trascorrere la notte ai Larganzoni e a Marter, fuori comunque del raggio d'azione del fuoco e delle bombe.
La strada che portava lontano da Roncegno era una miseranda sfilata di gente, animali, carri, immagini di dolore.
Gli sguardi degli sventurati correvano ai campi rigogliosi. Sui filari l'uva pendeva abbondante.
Molti prati apparivano rasati di fresco, in altri si vedevano i mucchi allineati di fieno, muti testimoni di un dramma repentinamente scoppiato.
Ciò che rendeva inconsueto il paesaggio era il vagare di animali domestici liberi per le campagne, facili prede di chi, dopo poco, si troverà a fare i conti con il bisogno o il piacere di cucinare qualcosa di saporito e gratuito.
A Marter s'ingrossò la carovana dei nomadi in cammino verso un approdo che saprà di straniero.
Quelli dei Brustolai, guadata la Brenta senza argini e senza ponti distrutti, si unirono ai compaesani, con la promessa di rimanere assieme: il parroco era con loro.
Durante il trasferimento qualche sosta si rese necessaria per vari motivi e bisogni.
La giovane Emma la richiese per allattare la sua creatura di pochi mesi, al riparo di un filare lungo il lago di Levico.  
Là le pesche sembravano cresciute apposta per ingolosire e attirare i ragazzi di passaggio ghiotti e affamati.
Frequenti erano i controlli e il transito dei militari, nelle due direzioni e con ogni mezzo.
Passavano gli ulani a cavallo.
Un camion militare tedesco si fermò; i ragazzi furono invitati a salire, trasportati a Pergine e là custoditi fino al sopraggiungere dei parenti.



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25/02/2023
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