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MALATTIE E MORTI
di Vitaliano Modena
A Mitterndorf mi prese la dissenteria. Ero molto debole, incapace di stare in piedi. Passava un infermiere e il papà mi metteva in un angolo con il coltellino in mano a fare qualcosa, col viso verso la parete perché non vedesse in quale stato mi trovavo. Così non mi portarono all'ospedale. Un farmacista roveretano mandò il papà in un paese vicino a comperare delle pillole e una bottiglietta di gocce. Guarii. Altri, ricoverati all'ospedale, morirono. Quando si ammalò mia sorella la portarono via il lunedì mattina e la sera rinchiusero tutta la nostra famiglia in un'apposita baracca di isolamento, il "serraglio", circondata da un'alta recinzione, perché temevano si trattasse di una malattia contagiosa. Un compaesano veniva da noi di nascosto, ci faceva uscire dalla recinzione e ci accompagnava a passeggiare un poco. Il sabato sera la sorella morì. Poco dopo ci permisero di ritornare nella nostra baracca.
Mitterndorf. Emma Conci con i figli Tullio (in braccio) e Luigi, morti a Mitterndorf;
accanto la sorella Emilia; dietro, la suocera Maria e la mamma Chiarina.
I medici trentini dott. Botteri e dott. Bertoldi, insieme con i colleghi tedeschi, avevano il gravoso compito di occuparsi della salute dei "cittadini" del lager.
Collaboravano còn loro infermiere pure tedesche addette a varie mansioni, svolte, a parere concorde dei profughi, con arroganza, trascuratezza, disprezzo addirittura delle persone e delle loro misere condizioni.
Il fatto di non conoscere la lingua costituì di per sé la prima barriera psicologica per una parte, e impedimento all'esercizio di una piena professionalità per l'altra.
Giovani della Croce Rossa e medici si presentavano tutti i giorni nelle baracche a controllare la febbre e ad inviare gli ammalati all'ambulatorio o negli ospedali, tanto generosi nei confronti della morte e il cui solo nome faceva raccapricciare.
I malati dissimulavano con arte il loro stato, le mamme tenevano nascosti i piccoli infermi per evitare che venissero scoperti e portati al "lazzaretto": non avrebbero più avuto adeguata assistenza e sarebbero stati in balìa di estranei.
"Sono andata a fare una visita all'ospedale dei bambini.
Dio che spettacolo! La sala era piena di piccoli malati.
Gemiti, deboli grida nervose, stridi come d'uccelletti feriti ferivano l'orecchio e il cuore.
Che potevo fare io per essi? Nulla. Scappai". (Boccher).
Mitterndorf. Un gruppo di malati.
Tutti i giorni passava il dottore e chiedeva: tutti sani? Chi era ammalato stava zitto, per evitare di essere inviato all'ospedale. Chi ci finiva, non ne usciva più vivo. Ricordo che dei vicini vollero fotografare il loro bambino morto a quattro anni, per averne un ricordo. Per questo si recarono al deposito che fungeva da camera mortuaria dov'erano accatastate le bare. Trovarono quella del loro figlio, la scoperchiarono e videro il piccolo morto con le mani serrate nei capelli.
Gli scolari venivano periodicamente visitati e seguiti nella pulizia personale (erano condotti alle docce o al bagno nel Fìscha); tali iniziative si rivelarono del tutto inadeguate per lo stato di denutrizione in cui si trovavano, per le condizioni di vita nelle baracche e per le malattie infettive, qualcuna trasmessa anche dai parassiti diffusissimi ovunque.
"Son venuti a pesar gli scolari. I poveri ragazzi, che da tre anni non bevono latte, son magri e nervosi.
Le fanciulle, quasi tutte esili e pallide, la maggior parte coi sintomi della tubercolosi ... " (Boccher).
L'inconveniente dei parassiti non si poté mai eliminare, per quanto le donne, nelle baracche, facessero del loro meglio per disinfestare, pulire, lavare con acqua bollente indumenti e suppellettili.
Bisognava fregare la stanza il giovedì e il sabato, e si riceveva un compenso per questo. Avevamo ordine. Nonostante questo, quanti pidocchi! Ci si consolava cantando: "Pioci, pulzi e zimesi descolzi come i cagni questi l'è i guadagni che se fa for per l'aizimpon''.
Molte e gravi malattie aggredivano in modo particolare i deboli corpi di bambini e vecchi.
Quelli di Terragnolo e di Vermiglio morivano 'come le mosche; "pora zente, strussiai de so casa!"
Tisi, dissenteria, morbillo, tifo petecchiale dilagarono assieme ad altre malattie dell'apparato respiratorio, cardiocircolatorio, e a tutte le infermità proprie della prima età e della vecchiaia.
E infine la spagnola (La spagnola. Epidemia partita dall'Asia nel 1918, ebbe in Spagna particolare gravità e nell'estate del 1918 investì l'Europa. Fu designata col nome di spagnola perché si ritenne che il focolaio primitivo avesse avuto sede nella penisola iberica. Inizialmente ebbe un decorso clinico benigno, mentre nell'inverno 1918-1919 si presentò con casi gravi e complicati ad alta mortalità, tanto da fame la pandemia più grave di tutte. Manifestazioni e complicazioni: febbre alta, tosse, emorragie nasali, mal di testa, diarrea e polmonite. Poco potevano fare i medici; le cure erano il chinino di stato e le bevande calde.).
Mio padre era morto in guerra ancora nel '16. Quando ormai si sperava di ritornare in patria, la mamma e mio fratello morirono di spagnola. Siamo rimaste solo noi tre bambine, affidate poi a un istituto.
Mitterndorf. Emma Quaiatto con le figlie Gisella (morta nel lager),
Linda e Silvia e la sorella Leopolda con il piccolo Attilio.
A Mitterndorf pagammo anche noi un gravoso tributo alla morte.
Un centinaio di nostri profughi non fecero più ritorno; volendo distinguerli, 90 della parrocchia di Roncegno, 3 di Marter, 7 di S.Brigida.
In quell'accampamento, dal giugno 1915 al dicembre 1918, si ebbero complessivamente 1913 decessi, di cui 875 (il 45,7%) fra i bambini (da 0 a 10 anni) e 621 fra le persone da 51 a 90 anni. 449 i nati (La città di legno.).
Inizialmente i morti venivano sepolti nel cimitero del paese, che si rivelò ben presto insufficiente.
Verso la fine del 1916 ci fu un cimitero appositamente per il lager, con una cappella dedicata all'Addolorata.
I profughi ricordano le lunghe file di bare allineate nella chiesa dell'accampamento, anche una ventina, in attesa di essere sepolte più d'una nella stessa fossa.
I morti erano decine al giorno, unico il funerale, con il prete che accompagnava le salme. Nelle fosse profonde mettevano una sopra l'altra anche sette, otto bare. Sull'ultima spargevano un po' di terra. lo chiamerei Mitterndorf la "città della morte". Noi perdemmo, nel '17, due fratelli in un giorno. Li portarono all'ospedale, non li vedemmo più.Venne poi una schwester a dire che erano morti. A periodi il numero dei morti era tanto elevato che, a volte, solo diversi giorni dopo il decesso si veniva a sapere che era morto qualcuno del nostro paese. Quando scavavano una fossa, si vedeva tanta acqua nel terreno. Lo zio della Giustina diceva sempre: "Non voglio morir qua e finire col culo nell'acqua". La paura di morire nel lager era angosciante, ma anche per una famiglia era una sventura avere qualcuno dei suoi morti in quella terra lontana. Tutti pregavano perché non accadesse. A Mitterndorf mi morirono due figli per malattia. Gigiotti, di cui parla la maestra nel suo diario, si bagnò tutto giocando nell'acqua fredda mentre la nonna, alla quale era affidato, era andata per un momento a riposare. La polmonite lo portò alla tomba in pochi giorni. Tullio, invece, prese freddo in baracca mentre era ammalato di morbillo e gli sopraggiunse una complicazione. I nostri morti furono sepolti nel cimitero del lager. Spesso andavo a far visita a quelle tombe per lo più senza fiori, a quelle croci di legno vicine una all'altra, che riportavano il nome e l'età dei defunti. Ed era ogni volta una grande sofferenza. Molte ragazze che conosce- vo, che mi erano amiche, furono sepolte là.
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