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PER LA PANAROTTA
di Vitaliano Modena
Una sera arrivarono i soldati a stendere i fili del telefono e occuparono la parte libera della soffitta di casa nostra. La mattina seguente radunammo le nostre poche cose e gli animali per raggiungere la Panarotta. Là c'erano tanti soldati e tanta gente. Passammo tutti per una stretta apertura fra i reticolati. Una mucca uscì dalla recinzione e i soldati di sorveglianza, con le baionette in canna, volevano impedirci di ricondurla con le altre. Rimasi impressionata, avevo allora 14 anni, a vedere i cannoni puntati verso la valle. La mamma organizzò i preparativi per la partenza; il papà era in guerra, il più piccolo dei quattro figli aveva nove mesi. Si arrivò a Casapendola; con noi c'erano la nonna e due zie. La mamma ci lasciò là e ritornò in paese per accordarsi con un'altra zia sul viaggio da fare assieme; ma lei era già andata via col carro verso Pergine per il fondovalle. Ritornò a Ccsapendoia, ma non trovò nessuno di noi: ci avevano obbligati a lasciare quel luogo e a oltrepassare la montagna; eravamo a Roveda. Il ricongiungimento avvenne qualche giorno dopo a Pergine. Scappammo attraverso la montagna con quello che si poteva portare e una capretta che la mamma cedette a una famiglia di Roveda, più povera di noi, per una borsa di rape e una di patate.
Foto tratta dal libro "LA LUNGA TRINCEA 191-1918
CRONACHE DELLA GRANDE GUERRA DALLA VALSUGANA ALLA VAL DI FIEMME" di Luca Girotto.
La gente della montagna è sparsa d'estate fra le baite delle molte località d'altura per la fienagione e il pascolo delle bestie.
Non tutte le famiglie vi dimorano unite.
Di frequente alcuni componenti si trovano altrove, richiamati da altri lavori o nel maso di abituale residenza, dove occorre far fronte alle necessità della campagna.
E anche questo generò problemi e difficoltà quando venne impartito l'ordine di andarsene.
Le famiglie si attardarono il più possibile, poi incominciarono a lasciare i masi.
A piccole tappe, sostando nelle baite poste più in alto, pernottando a Cinquevalli o ai Marlecchi, s'avvicinarono alla Panarotta.
Le carrette mili- tari raccolsero profughi; essi trovarono nei soldati aiuto e modo per rifocillarsi (ci offrirono una scodella di riso).
Non dimentichiamo che diversi soldati erano roncegnesi.
I più se ne andarono insieme, dopo le bombe su Roncegno. Anche per le strade della montagna sembrava una processione.
La gente di Monte di Mezzo confluì con quella di S. Brigida, e alla Bassa una marea di gente, di militari e di bestie, rendeva irriconoscibile quel luogo solitario, placido pascolo di greggi, passo per la valle dei Mocheni.
Qualcuno dei piccoli venne smarrito e ritrovato a fatica. Parte delle bestie fu trattenuta dai soldati, dietro pagamento.
Valicato il passo, si discese l'opposto versante.
La maggior parte fu ospitata per la notte alla bell'e meglio in baite, in stalle e fienili di Roveda.
Alcuni salirono sui mezzi militari di passaggio, traballanti e poco confortevoli per le strade ciottolose, ma ambìti soprattutto dai ragazzi.
Il giorno seguente l'appuntamento era a Canezza, dove parecchi si fermarono per alcuni giorni e ebbero il tempo di collocare le bestie presso famiglie dei paesi vicini (anche a Viarago, Mala, Faida, Segonzano) e di vendere le rimanenti.
Per altra via alcuni raggiunsero Falesina e quindi Pergine, congiungendosi al grosso dei compaesani.
Foto tratta dal libro "LA LUNGA TRINCEA 191-1918
CRONACHE DELLA GRANDE GUERRA DALLA VALSUGANA ALLA VAL DI FIEMME" di Luca Girotto.
Le prossime testimonianze mettono a fuoco alcuni momenti dell'esodo.
Da quando era cominciata la guerra si udiva il cannone sparare dalle alture di Borgo, e sopra la nostra testa, quando eravamo nei campi, sentivamo fischiare i proiettili lanciati dalla Panarotta. Un giorno, era il 24 agosto, due soldati si presentarono a casa domandan- do della mamma: si trovava in campagna, poco distante (il papà era emigrato negli Stati Uniti nel 1913). Dissero: "Entro domattina, prima che si faccia giorno, dovete partire". La mamma lasciò cadere la roncola e corse a casa. Cominciò a preparare affannosamente qualche fagotto. Seguita a fatica dai cinque figli e da qualche animale, ancora quella sera si portò al maso Bernardi, dove vivevano i nonni e le zie. La mattina seguente eravamo in cammino verso la Bassa. AI capitello di S. Antonio c'erano dei soldati con dei polli infilzati nella baionetta. Tanta gente saliva con noi: anziani, donne e bambini che piangevano, e animali di tutte le specie. Sulla Bassa c'era soltanto un varco fra i reticolati; i soldati vi controllavano i documenti. Lassù i miei vendettero gli animali ai militari. Era estate. I soldati ci invitarono a disfare le baite, altrimenti le avrebbero bruciate [cosa che si verificherà per opera degli opposti schieramenti]. Si seguì il consiglio, ammucchiando le assi nel casotto delle galline. Il formaggio fu riposto in una cassetta sepolta nel terreno. A fine guerra non trovammo né le assi né il formaggio; solo la caldaia che era stata sepolta nel letame. Lasciammo Paicovel ai 20 d'agosto, spostandoci ai Marlecchi; e di là partimmo definitivamente ai 28, con sei, sette mucche. Alla Bassa bisognò passare per un pertugio tra le file di reticolati. Oltre, trovammo un carro di trasporto materiali; con mio fratello vi salii fino a Pergine. Ai Gasperazzi, dove abitavamo noi, si facevano vedere, da un mese, anche i soldati italiani; venivano a comperare uova e galline, e ci dicevano che in poco tempo sarebbero arrivati a Trento e avrebbero liberato la nostra regione. Erano i primi di settembre. I tedeschi, che ci tenevano d'occhio, ci accusarono di essere spie degli italiani e ci minacciarono di fucilazione. In quello stesso giorno avvenne anche una scaramuccia nei dintorni, precisamente alla chiesetta di S. Anna, nel corso della quale trovò la morte un soldato italiano di 27 anni. Ci obbligarono ad andare via; ci accompagnarono, anzi, fino al maso Zotte/i. Là c'era un vecchietto che viveva da solo; di lui non si seppe più nulla. Il giorno seguente, passando per Cinquevalli, un buon uomo ci offrì da mangiare; dopo di che raggiungemmo il passo e, più tardi, Pergine. Agli Auseri arrivò una pattuglia di soldati austriaci, da S. Anna. Giunti nei pressi del maso, udirono come un fischio. Sicuri che fosse un segnale di avvertimento per i soldati italiani che erano nei paraggi, essi arrestarono i tre componenti della famiglia di mia madre e li condussero a Serot. Venne mandato qualcuno sulla Panarotta per chiedere il da farsi; risposero: fucilazione. Il nonno spiegò e supplicò che si trattava di un equivoco: quello che essi avevano scambiato per un fischio era nient'altro che il cigolio di una porta aperta da uno di loro uscendo di casa alla vista della pattuglia. Due soldati scesero agli Auseri a verificare: era verosimile. Vennero allora rimessi in libertà, ma dovevano lasciare immediatamente il luogo. Poco dopo fu trovato un soldato tedesco alla fontana del maso, riverso per terra, morto.
I primi tra coloro che avevano abbandonato Roncegno nel pomeriggio de 31 agosto giunsero a Pergine sul far della sera.
Foto tratta dal libro "LA LUNGA TRINCEA 191-1918
CRONACHE DELLA GRANDE GUERRA DALLA VALSUGANA ALLA VAL DI FIEMME" di Luca Girotto.
Gli altri arrivarono anche a notte inoltrata e durante il giorno seguente.
La prima preoccupazione fu quella di cercare un rifugio.
Si bussò anzitutto alla porta di persone conosciute, dove si poteva forse trovare una stalla, un fienile, un pavimento per sistemarvi dei giacigli. I Dalsasso si stesero sulla morbida lana nei depositi del lanificio, proprietà di parenti.
Si sparse la voce che erano disponibili i locali del convento dei Francescani, aperti alla massa dei bisognosi (Per i profughi di Caldonazzo, Calceranica, Centa, Bosentino, Ischia e in parte di S. Vito e Santa Caterina partiti dopo il primo di giugno, e più tardi per quelli della Bassa Valsugana, il convento dei Francescani di Pergine mise a disposizione i propri locali, non escluso il fienile e la stalla. Si legge nella cronaca del convento: "Ogni andito fu pieno di vecchi, di donne, di bambini, e ripieno in modo che tanti, massime la prima sera, dormirono su carri e con poca paglia nello spiazzale davanti al refettorio". È riportato anche che si cucinava non solo nella nuova e nella vecchia cucina, ma su tre o quattro focolari improvvisati. In un giorno fu consumato quasi un quintale di farina per polenta. Il 18 giugno arrivarono quelli di Borgo, il 26 agosto quelli di Telve, Roncegno e Ronchi, il lo settembre ancora e massicciamente profughi di Roncegno, Marter, Novaledo. Di quest' ultimo scaglione la cronaca dice che "restarono undici giorni prima di poter prendere il treno. Non tutti poterono essere accolti in convento. C'erano di continuo cinque o sei fuochi accesi e qualche donna veniva qui a prendersi legna per cuocere la polenta sulle pubbliche vie ... era una pena indescrivibile".) , il magazzino dei pompieri e la filanda.
Disseminata in molti ricoveri, la gente poté finalmente riposare.
Per cena ognuno provvide con quello che s'era portato, utilizzando focolari improvvisati pure per le strade, le riserve del convento, le offerte della gente.
Le angosce di quel giorno stavano per finire.
Cosa avrebbe riservato il domani? Intanto i ritardatari, partiti a sera avanzata, stavano percorrendo la strada malamente rischiarata da lanterne traballanti e a tratti dai riflettori che dal Pizzo rigavano il cielo e la montagna.
Chi stava tentando di riposare sulla paglia in precedenza usata da profughi di altri paesi, fece da subito l'incontro con i pidocchi, compagni sgradevoli di molti luoghi d'esilio.
In qualche modo trascorse per tutti la notte; le prime luci dell'alba destarono a nuovi affanni e a poche certezze.
Giunsero nella cittadina anche coloro che avevano preferito sostare a Ischia, ai Masetti o nelle case della val dei Mocheni perché provenienti dalla montagna.
Si unirono i vari gruppi di esuli partiti in momenti diversi dalle varie località.
Cominciò l'esplorazione delle possibilità di essere alloggiati per il periodo dello sfollamento fra i conoscenti di Pergine e del circondario.
Il peregrinare si estese di paese in paese anche ai più lontani, via via che i dinieghi cancellavano una parte di speranza di rimanere in valle.
Diverse famiglie trovarono l'ospitalità desiderata, che dovette essere confermata dalle autorità, a Pergine, a Canezza, a Roncogno, a Civezzano . . .
Per i più non restava che attendere disposizioni. In quei giorni, si consumarono gli alimenti portati da casa, si gettarono le galline che cominciavano a imputridire, si vendettero le bestie e i carriaggi al comando militare o alla gente della zona.
Qualche mucca venne data in pastura per poterla riavere a emergenza finita.
Al Bortolo premevano le catene alle quali aveva legato le sue bestie e le nascose per bene: sarebbero state preziose al ritorno.
Il nostro paese deve riconoscenza ai frati del convento, ai volontari della Croce Rossa e di associazioni caritatevoli, a singole signore, che si prestarono a soccorrere allora i fuggiaschi.
Ancor prima dello scoppio della guerra con l'Italia, il papà era stato richiamato alle armi e era sulla Panarotta. La mamma teneva i contatti con lui e di tanto in tanto gli portava qualche indumento o qualche bottiglia di grappa. Il fatto che civili salissero fin lassù a incontrarsi con soldati destò sempre più sospetti: avrebbero potuto trasmettere informazioni e favorire le diserzioni. Perciò venne emanata la disposizione secondo la quale chi intendeva recarsi sulla montagna doveva avere anche il permesso della gendarmeria, oltre a quello del podestà. La mamma, che ignorava le nuove formalità, salì con il figlioletto di otto anni. Poco prima di giungere a Cinquevalli fu avvistata dalle vedette della Panarotta. Per stabilire di chi si trattasse e verificare la regolarità della loro posizione vennero inviati due militari: uno di loro era il papà; l'altro, un ungherese. Durante l'incontro vi fu la consegna delle cose portate. Dall'alto la scena era stata seguita con il binocolo. Alla pattuglia celermente intervenuta vennero date spiegazioni, non ritenute veritiere. Il papà fu subito trasferito a Trento (dove rimarrà per tutto il periodo della guerra) e la mamma con il bambino venne scortata fino a Pergine e quindi al castello del Buonconsiglio, senza poter passare prima da casa. Dopo l'esame del caso, la decisione: la mamma, ritenuta elemento pericoloso, fu inviata immediatamente in Moravia con il figlio. Aveva solo il lasciapassare, sul quale, nelle varie stazioni, veniva posto il bollo dei controlli. I familiari, rimasti a Roncegno, seppero dopo alcune settimane, dietro interessamento del responsabile della gendarmeria, che cos'era capitato ai due congiunti. Il giorno in cui il paese venne evacuato, la nonna lasciò la casa con quattro bambini legati a uno spago, uno dietro l'altro, insieme con la zia e le bestie: una mucca, una capra, due pecore e un maiale (quest'ultimo conquistò presto la libertà appena [uot" dell'abitato). La mamma ottenne in un secondo tempo di poter ricongiungersi ai familiari a Mitterndorf. l'Italia, il papà era stato richiamato alle armi e era sulla Panarotta. La mamma teneva i contatti con lui e di tanto in tanto gli portava qualche indumento o qualche bottiglia di grappa. Il fatto che civili salissero fin lassù a incontrarsi con soldati destò sempre più sospetti: avrebbero potuto trasmettere informazioni e favorire le diserzioni. Perciò venne emanata la disposizione secondo la quale chi intendeva recarsi sulla montagna doveva avere anche il permesso della gendarmeria, oltre a quello del podestà. La mamma, che ignorava le nuove formalità, salì con il figlioletto di otto anni. Poco prima di giungere a Cinquevalli fu avvistata dalle vedette della Panarotta. Per stabilire di chi si trattasse e verificare la regolarità della loro posizione vennero inviati due militari: uno di loro era il papà; l'altro, un ungherese. Durante l'incontro vi fu la consegna delle cose portate. Dall'alto la scena era stata seguita con il binocolo. Alla pattuglia celermente intervenuta vennero date spiegazioni, non ritenute veritiere. Il papà fu subito trasferito a Trento (dove rimarrà per tutto il periodo della guerra) e la mamma con il bambino venne scortata fino a Pergine e quindi al castello del Buonconsiglio, senza poter passare prima da casa. Dopo l'esame del caso, la decisione: la mamma, ritenuta elemento pericoloso, fu inviata immediatamente in Moravia con il figlio. Aveva solo il lasciapassare, sul quale, nelle varie stazioni, veniva posto il bollo dei controlli. I familiari, rimasti a Roncegno, seppero dopo alcune settimane, dietro interessamento del responsabile della gendarmeria, che cos'era capitato ai due congiunti. Il giorno in cui il paese venne evacuato, la nonna lasciò la casa con quattro bambini legati a uno spago, uno dietro l'altro, insieme con la zia e le bestie: una mucca, una capra, due pecore e un maiale (quest'ultimo conquistò presto la libertà appena [uot" dell'abitato). La mamma ottenne in un secondo tempo di poter ricongiungersi ai familiari a Mitterndorf.
Foto tratta dal libro "LA LUNGA TRINCEA 191-1918
CRONACHE DELLA GRANDE GUERRA DALLA VALSUGANA ALLA VAL DI FIEMME" di Luca Girotto.
I nostri profughi, precariamente alloggiati a Pergine, ricevettero l'ordine di partire.
Venduto il possibile, gettato l'inservibile, i fagotti e i bambini in braccio, rassegnati a una triste sorte d'esilio, essi occuparono i vagoni bestiame in attesa alla stazione.
I gruppi di parenti e vicini cercarono di stare insieme, per alleviare con la solidarietà e la condivisione gli inevitabili disagi di un viaggio che si preannunciava lungo e con meta l'ignoto.
Le famiglie, prima divise per la partenza dei soldati e militarizzati, vennero ulteriormente smembrate perché i ragazzi oltre i 14 anni furono trattenuti e militarizzati anch'essi.
Altri nuclei si ricomposero fortunosamente (i miei fratelli scapparono dalla Panarotta dove stavano costruendo le linee di difesa e si unirono a noi).
In qualche caso la separazione fu una scelta, dura ma personale.
Il papà, che era con noi, decise di seguire la sorte dei più e di prendere la via delle regioni interne dell'Austria, portado con sé i cinque figli. La mamma, che non se la sentiva di affrontare il viaggio faticoso, rimase a Canezza. Quando arrivò il giorno della partenza, lei ci preparò una polenta nera per il viaggio. Piangeva. Camminavo sospinta dai fratelli sulla strada che mi portava lontano; mi voltavo di continuo e salutavo.
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