Menu principale:
SPERDUTI IN TERRA BOEMA
di Vitaliano Modena
I ricordi di coloro che furono inviati in Boemia e vi trascorsero l'esilio ci riportano indietro, ai giorni dell'esodo tormentoso, del viaggio nei vagoni bestiame in un coacervo di povertà estreme, alle soste defatiganti nell'attesa inquieta di una destinazione, all'epilogo di un peregrinare incerto e oscuro.
Finalmente l'ultima stazione!
Coloro che capitarono insieme a parenti e conoscenti trovarono conforto mettendo in comune lepreoccupazioni, le ansie, i poveri beni.
Negli altri,la solitudine s'aggiunse al disorientamento:luogo, tempo, lingua, religione, usanze assunsero con notazioni incerte.
Lo stato diprofondo abbattimento spinse qualche anziano e ammalato a desiderare la morte come una liberazione.
Ma nei più prese forza la volontà di sopravvivere a qualsiasi costo per sé e per i propri cari. Dalle stazioni ferroviarie i profughi furono smistati in paesi e villaggi secondo un piano concordato con i capicomune.
Il trasferimento si concluse per strade talvolta sconnesse che s'inerpicavano sulle colline sovrastanti la pianura; magari di notte, pena aggiuntiva per quei corpi e quegli spiriti macerati, bramosi soprattutto di un pasto e di un giaciglio ristoratori.
La prima sistemazione fu precaria. Stanzoni di scuole, case comunali, locande e teatri accolsero parecchie persone ricoverate sulla paglia gettata sul pavimento, privi di tutto.
Con la partenza da Pergine cominciarono tre lunghi giorni di viaggio disagiato. Attraverso fessure e spiragli si poteva scorgere qualcosa delle terre attraversate. Trascorrevamo le ore sdraiati sulla paglia, pregando. Prima tappa, Salisburgo; ricevemmo da mangiare cibi avariati e riposammo parte ali' aperto e parte nelle stalle dove avevano dormito i militari. Sulla paglia c'erano pezzi di carne che puzzava e tanti pidocchi. A Vienna ci dirottarono verso Mitterndorf. Ricordo la zona paludosa e le baracche, dove attendemmo tutto un pomeriggio che si trovasse posto per noi. Il treno ripartì verso sera e da quel poco che riuscimmo a intravedere capimmo che stavamo ritornando a Vienna. Passammo la notte nella stazione di quella città. Il viaggio del giorno seguente ci rivelò qualcosa di nuovo: le scritte lungo le linee ferroviarie non erano in tedesco. Eravamo in Boemia. Scendemmo a Tabor e chiedemmo subito del caffellatte: la risposta fu "tciai" (tè). Parte dei nostri furono rimessi sul treno, affidati a gendarmi ché li accompagnassero nei luoghi stabiliti. Noi, a Tabor, eravamo attesi da soldati, uno dei quali era un Dalla Torre della Valle di Non e faceva parte di un gruppo di convalescenti al servizio di un conte, proprietario di una vasta tenuta nella regione. Per la mia famiglia fu liberata una stanzetta di pochi metri quadrati tolta a profughi galiziani che tentarono di ribellarsi. Un po' per la scena a cui avevamo assistito e un po' per la sporcizia che regnava nel locale (si sapeva già che i galiziani erano pieni di pidocchi), entrammo di malavoglia. Una signora boema mi prestò una bacinella per lavare la stanza; mi serviva anche uno spazzolone e andai in negozio a comprarlo. Non riuscivo a farmi capire. Passando attentamente in rassegna gli oggetti sugli scaffali, lo vidi e lo indicai. Il negoziante, un ebreo, mi disse "canaci". Così imparai un'altra parola nella nuova lingua. Con lo spazzolone, anche se stremata per il viaggio e affamata, mi misi a fregar il pavimento della stanza, sul quale, finalmente, spargemmo della paglia ottenuta dal capocomune e ci preparammo per dormire. "Oh Dio, dove siamo amoau!», esclamò mia madre nelle preghiere di quella sera. Non tutti trovarono posto in alloggi singoli. Diverse famiglie furono radunate in un immenso teatro con sacconi di paglia per giaciglio. I militari distribuivano il cibo cucinato su grandi fornelli, le crocerossine si prendevano cura dei bambini più piccoli. Soltanto dopo un mese tutti furono sistemati in abitazioni dei villaggi del circondario. A ogni famiglia di sette, otto persone spettava una stanza. Il treno di venti vagoni ci condusse a Mitterndorf. Parte delle famiglie vennero fatte scendere là; per le altre non c'era più posto. Il treno riprese allora a viaggiare e nessuno sapeva verso dove. Giungemmo prima a Praga e poi nel paese di Pacov, la nostra ultima fermata. Alla stazione trovammo ad attenderei dei carri. Caricata la nostra roba e i bambini, salimmo per qualche chilometro una strada ripida che conduceva al villaggio di Salakova, presso la cui osteria trovammo ospitalità per tutto il tempo della nostra permanenza in Boemia. La prima sistemazione fu sulla paglia, in un locale al piano superiore, dove era collocata una stufa. La gente del posto venne a chiederci se avessimo bisogno di qualcosa, e ci portarono uova, latte, legna... Una guardia che sapeva l'italiano si presentò dopo un paio di giorni e prese nota delle nostre necessità.
Boemia. da sinistra: Emma Montibeller, Luigia Moratelli, Emma Dalceggio, Tonina Caumo.
Ci consegnò dei buoni con i quali potevamo recarci presso le famiglie per provvederci di generi alimentari. La padrona della casa era gentile con noi; soffriva anche lei a causa della guerra: il marito e tre figli erano in Russia. Sul finire della primavera del 1915 ero all'ospedale di Levico. Arrivato l'ordine di evacuare, fui inserita con i malati nell'elenco dei partenti. Fummo trasportati da Levico a Caldonazzo con i carri: era il mese di giugno. Sul treno ci assegnarono la prima classe. A mano a mano che si procedeva, venivano fatti scendere gli ammalati più gravi nelle stazioni di transito. Tutt'attorno si facevano gendarmi ad aiutare i bisognosi e signorine con bevande e tazze di brodo. Dopo otto giorni arrivammo a Tabor, sporchi e maleodoranti. Molti anziani della casa di riposo erano in condizioni pietose; alcuni perdettero anche il senno. E fortuna che erano con noi il medico dotto Grandi e il cappellano don Matteo Holzhauser. Tabor non era però ancora la conclusione del nostro trasferimento. Tutti i malati furono sistemati su carri con grandi ruote che s'avviarono lentamente per una ripida salita. Dopo tre ore e mezza, ecco un castello e le poche case di un paesetto. La carovana si fermò in piazza, dov'erano ad attenderci diverse persone: si presentarono come le autorità del piccolo centro, Stavec: c'erano il sindaco, il curato, i proprietari del castello. Sporchi e affamati, ci sedemmo sui tronchi posti ai margini della piazza. Sembravamo zingari. Don Matteo, sensibile e dal cuore d'oro, seduto accanto a noi, piangeva. Dopo i convenevoli e lo scambio d'informazioni, fummo sistemati tutti, provvisoriamente. Era 1'8 settembre, festa della Madonna. Arrivammo insieme in un paesetto a 30 km da Pilsen e ci distribuirono qua e là nelle abitazioni. Trovammo alloggio nello stanzone di una grande casa. Eravamo una trentina di persone: i componenti delle famiglie Dalprà, Eccel, Menegol, Zottele e Montibeller. IJ locale era in gran parte occupato da due tavole (una per mangiare e un'altra per le stoviglie), da due panche attorno e da una stufa, in comune. Lungo le pareti, rialzato da terra, era stato costruito un tavolato sopra il quale erano stati sistemati i pagliericci. E lì si dormiva tutti. Nell'altra parte della casa, in un altro locale simile al nostro, erano ammassate le famiglie Cipriani, Pompermaier, la Damiana con quattro figli e qualche altra persona di Roncegno e Ronchi. Era notte. Dopo due ore di cammino giungemmo nel paese di Niederlique, nel capitanato di Landskron, e ci accompagnarono nella locanda. Erano già stati tirati dei reticolati attorno alla casa; ci riservarono una grande sala che accolse 56 persone distese sul pavimento. Vi rimanemmo un paio di mesi. Arrivati in una città boema, ci divisero in gruppi. Il nostro doveva portarsi in un paesino che contava un centinaio di abitanti. Era quasi notte quando finirono di caricare i fagotti sul camion, con la preoccupazione che qualcosa venisse a mancare: «99 boemi l'è zento ladri», ci sussurrava il papà. Noi seguivamo a piedi. Il cammino durò due ore. Per quella notte ci sistemarono in un'osteria. Il giorno seguente ci accompagnarono nella casa di un contadino: ci avrebbe dato lo stanzone delle oche. Fatte uscire le bestie, pulito alla meglio il pavimento e sparsa la paglia, cominciammo a disporre le nostre cose. Eravamo in otto noi, in otto la famiglia della Ester Montibeller, e poi c'erano i Bonella. Si stava tanto pigiati da non potersi nemmeno girare. In quelle condizioni trascorremmosedici giorni.
Gruppo Alpini di Roncegno – Piazza Achille De Giovanni 1- 38050 – Roncegno Terme – (Tn) P.IVA/C.F.90012350220