Un mestolo di ferro e una tazza senza manico - Gruppo Alpini Roncegno

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Un mestolo di ferro e una tazza senza manico

La 1a G.M.



UN MESTOLO DI FERRO E UNA TAZZA SENZA MANICO

di Vitaliano Modena



Questa memoria, alla fine del capitolo e del libro, tratteggia anch' essa, come molte di quelle che l'hanno preceduta, un'esperienza di vaste dimensioni individuali e collettive che il tempo e la vita hanno ridotto a essenzialità spirituale e di eventi.
Le annotazioni che fornisce lasciano intravedere e immaginare appena l'universo
delle vicessitudini patite da una comunità che aspirava alla pace e che il turbine della violenza ha invece sconvolto e disperso.
I sacrifici vengono ricordati come un monito per il presente e l'avvenire: la pace, che è soprattutto conquista, è il frutto di una cultura, di una civiltà, di un impegno educativo che pongono nella ricerca e nell'attuazione del bene comune uno degli obiettivi fondamentali della realizzazione umana.
Era quasi notte quando il carretto con noi due bambine e un piccolo baule sopra si allontanò dalla nostra casa e dal paese. La mamma e lo zio, in tutta fretta, avevano messo assieme poche cose; il papà era partito per la guerra ancora nel '14.
Lungo la salita di Novaledo venni fatta scendere per alleggerire la fatica di chi tirava il piccolo mezzo di trasporto. Si avvicinavano a noi gatti e cani abbandonati dalla gente che scappava.
Ci fermammo al maso S. Desiderio, insieme con tanti altri. Era buio, guai ad accendere una luce. Mia sorella, perso il succhiotto, piangeva. Lo zio accese un fiammifero per cercarlo e un gendarme, con la sciabola, lo redarguì con tale violenza che pareva volesse ucciderlo.
Arrivammo a Pergine. Alla stazione erano pronti i treni per i profughi. Allo zio qualcuno disse che aveva visto mio padre senza gambe su una barella; quanta angoscia per la mamma! Che fare? Un sacerdote di Pergine comprese la sua disperazione e la ospitò con tutti noi presso sua madre. Vi rimanemmo nascosti per otto giorni.
I treni, intanto, erano partiti e noi raggiungemmo Miola di Ptné; s'erano aggiunte anche la nonna e la zia. Avevamo sempre la speranza di ritornare presto nella nostra Roncegno.
Costretti a lasciare l'abitazione di Miola a causa delle condizioni di salute della mamma (ritenuta affetta da grave malattia), fummo alloggiati a Vigo, presso una famiglia di tredici persone che divisero con noi la loro povertà.
Quando battevano la pigna si partecipava come a un rito.
Un giorno la mamma decise di recarsi a Roncegno a veder la sua casa, accompagnata da altre due persone. Valicata la montagna, arrivarono nei boschi sopra Marter che ormai era piena oscurità; decisero di passar la notte nella casa dei Bazzanella, seminascosta fra gli alberi. Come vi si avvicinarono, sentirono musica e baldoria: erano i soldati in allegra brigata. Non ebbero altra scelta che rifugiarsi in un casotto che stava sopra, nel vigneto, dove aspettarono l'alba, al freddo. Raggiunto di primo mattino l'ufficio della gendarmeria, ottennero a fatica un lasciapassare, valido soltanto per recarsi alla propria abitazione, in via Agricola.


Viarago. Emanuele Menegol con Stefania Bonella e il figlio Giuseppe.

Della casa rimaneva solo il muro che dava sulla strada. Rovistando fra le macerie, trovò unicamente un mestolo di ferro e una tazza senza manico che portò a Vigo per ricordo. La maggior parte del paese era stato devastato e saccheggiato.
Sulla via del ritorno, poco sotto la Panarotta, la mamma trovò due sedie che erano appartenute al Palace Hotel e con quelle sulla schiena arrivò a Vigo.
Le ristrettezze economiche erano continue, ma lei non si perse d'animo. Faceva ciabatte di pezza, sapone e oggetti vari che poi scambiava per qualche chilo di farina o con gallette secche; scendeva a Pergine o a Trento a vendere i propri lavori. E la sera, a letto, dicevamo alla nonna che avevamo fame. E lei: "Presto arriverà la mamma e vi porterà qualcosa, pregate".
La mamma un giorno spedì una grossa pagnotta al papà, pensando che lui, essendo al fronte, avrebbe avuto più bisogno di noi. Dopo tre mesi quel pane ritornò alla posta di Baselga perché era stato impossibile inoltrarlo. Era ricoperto di muffa; si grattò la muffa, lo si mise nel forno a fette e lo si mangiò tutto: il pane era pur sempre pane.
A lunghi intervalli arrivavano "Feldpost" dal papà: anche sei o dieci cartoline per volta; poi riprendeva il silenzio.
Lo zio fu costretto ad andare a lavorare con l'Anbau, per guadagnare qualche soldo. Quando ritornò era in cattive condizioni fisiche e pieno di pidocchi.
Ogni tanto arrivavano dal fronte soldati in licenza o per malattia. Una sera, nella nostra piccola cucina, vennero preparati alla bell'e meglio tre letti per ospitare soldati di Roncegno: non finivano mai di raccontare della guerra.
A scuola, ogni tanto, distribuivano una pagnotta, un pezzetto di lardo e altro. Volavo allora sul prato con la voglia incontenibile di dire, appena arrivata a casa: "Guarda mamma, cosa ho portato!".
Negli ultimi tempi dilagò la spagnola. Morivano in tanti. Ogni giorno passava il carro nero che portava malati al lazzaretto. Con l'aiuto di Dio nessuno di noi ci andò; la nonna s'ammalò, ma fu tenuta nascosta e guarì.
Un giorno, ritornata da scuola, vidi davanti all'abitazione un camion militare, sul quale erano già state caricate le poche cose che ci appartenevano. La mamma mi disse: "Fa' presto, fra poco partiremo per Roncegno". Che gioia! A noi bambini sembrava di andare nel posto più bello del mondo. Zia Tonina era già sistemata fra gli oggetti di casa, seduta su una di quelle due famose sedie delle Terme.
Lo zio ci ospitò al maso Ronca, così evitammo di andare nelle baracche costruite per i profughi che stavano rientrando. Nella stalla avevamo una mucca e una manza, e siccome in tutta Roncegno erano rare le mucche, la sera si doveva dividere il latte in numerose piccole porzioni per accontentare le mamme che mandavano a prenderlo per i loro bambini.
Nel grande portico erano ancora sistemati soldati, in parte meridionali, che aspettavano di venir ritirati. Uno di loro, piccolino, si chiamava Felice; quando rientrava di notte cantava sempre. La mamma diceva: poverino, canta per la paura. Poi c'era Adriano, alto, biondo; di lui ho un ricordo particolare. Un giorno, mentre stavo facendo ritorno a casa, mi venne incontro, mi alzò fra le braccia e mi disse: bambina, sta arrivando papà. Corsi subito dalla nonna e ne ebbi conferma. Zio Demetrio mi accompagnò subito verso il torrente; sul greto vidi tante persone e, fra di esse, un uomo con mia sorella in braccio. Mi prese la confusione e la timidezza, mi aggrappai ai pantaloni dello zio e vi nascosi il viso. Un istante dopo due braccia mi presero e mi strinsero forte.
Non vedevo papà da cinque anni e non lo riconoscevo; per diverso tempo continuavo a sbagliarmi chiamandolo zio, e lui ne soffriva. Zio Demetrio, d'altronde, era stato per me come un padre.




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25/02/2023
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